venerdì 6 maggio 2011

Agnello

Ho aspettato qualche giorno prima di pubblicare questo post: ho voluto aspettare il momento della partenza e della digestione. Ringrazio Ciccio per avermelo inviato e vi auguro buona lettura.

"ogni posto è una galera
anche il più bello è una galera
ogni corpo è una porta"

(L'impegno, Tre allegri ragazzi morti)




Una nervatura dagli occhi al cuore, un fascio di sottili nervi stimolano l'aria e dettano impulsi. Miele dentro, nebbia pastosa scivola nella lingua e le mani eseguono il dettato.

Nulla del caucciù qui intorno rimane, tutto svanisce con tre boccate. Rimane solo lei, montagna illuminata dal cimitero. La città è buia, chiusa nella notte fresca. I vivi non vogliono sapere. I morti lasciano la luce accesa, si sa mai che ti perdi. O ti accomodi.

Tutto arriva adesso a centoventi chilometri orari. Come il dub alle orecchie, come il sonno di chi ho accanto, come le chiacchiere dei vicini. Eppure ho calma nell'affrontare le curve, che pure sono pericolose, in questa strada infinita, fatta di deviazioni e segnali. Ci sono dei buchi nel buio, di colore azzurro, che invitano ad essere percorsi. Promettono l'insonorizzazione.

Dal mondo - aggiungo con una nota di spray.

C'è un tappeto di luci che dirige il mio sguardo al di là dei limiti di velocità, è una carrellata di arancione, verde con linee bianche, blu, asfalto. E cielo. Nero. Da perdersi.

Il sonno è distante dai miei occhi, fugge la sua naturale posizione in quella conca che è la testa. Che è notte nessuno può negarlo, ma non c'è niente da fare, quello che sto facendo l'ho sempre fatto da sveglio, solo rare volte mi sono concesso riposo. Sarà anche il magone che mi porto addosso come un vecchio cappotto. Lo sapevo che non dovevo mangiare l'agnello porchettato, che non lo digerivo. Beh, un agnello per quanto possa espiare i nostri peccati dubito che possa perdonarci tutto questo: sgozzato e messo a testa sotto, dissanguato, tosato, sventrato, sbudellato, fatto a pezzetti. Lavato e messo a macerare con acqua e limone che sennò puzza. Successivamente viene condito e adagiato su una teglia da forno e messo a cuocere ad alta temperatura per un paio d'ore.

Vai a farti raccomandare di toglierti i peccati del mondo! E di rimettere i nostri debiti dove debitamente devono stare.

Invece della mia famiglia non so se ho voglia di raccontarti. Adesso è Pasqua e io sto tornando. È sempre qualcosa che sta a metà tra desiderio e obbedienza il mio tornare. Ma non obbedienza verso i miei, no, quello è il desiderio. L'ordine che non posso subordinare è dato dalla terra. La mia terra, nel caso un'isola, la Sicilia.

Il canale di Sicilia si supera, su un traghetto, in una traversata di venti minuti circa, molto più sicuri di altri migranti che nelle stesse ore affrontano il Mare di Sicilia. A noi residenti è concessa la libertà di scattare fotografie, ogni volta uguali, a un mare che è sempre stato un amico o un pensiero a cui tornare nei momenti di sconforto o in quelli che chiamiamo mal di terra ferma. Stamattina il mare ha il colore nero del cielo durante la notte. Unica sfumatura bianca è rappresentata dalla vanità della Luna. Il suo riflesso nell'acqua si allunga, si spezzetta, ribolle. Il vezzo di una vecchia signora che continua a specchiarsi nell'acqua per nascondere le rughe.

La traversata dura un attimo, a facilitare tutto c'è la stanchezza, la gioia e una magia. Sembra in verità che il traghetto sia attratto dalla costa. Non stiamo navigando sferzando l'acqua con la chiglia, ne siamo staccati di qualche metro rendendo ovattato il nostro viaggio. Il tempo non si fa pregare e rallenta tutto anche la mia sigaretta, che non vuole finire.

“I passeggeri sono pregati di risalire!” Il resto del viaggio è uno scorrere di pellicole già viste: Messina, Catania, Gela, Licata, Palma di Montechiaro, Agrigento, Sciacca, Mazara del Vallo e infine Garibaldi.

Il vecchio Giuseppe. Mi viene in mente il padre del protagonista del film “Nel nome del padre”. Ricordi? C'è quella battuta bellissima quando il figlio insulta il nome del padre chiedendosi e chiedendogli che diavolo di nome è Giuseppe, con quel viso da buono bastonato, la sua religiosità sventolata come baluardo a tutte le difficoltà della vita. Lui che è un uomo onesto lavora per un allibratore. Gli rimprovera di non aver vissuto. Poi da bravo innocente cristiano cambia rotta e si redime.

Forse mangiando il mio agnello.

Ciccio Grass