Dopo mesi di digiuno i rospi sono tornati a galla per mordere le nostre lingue. Non si riesce a tenerli giù per sempre, non si riesce mai a tenerlì giù. Queste sono giornate di merda, giornate che non lasciano spazio nelle tombe per permettere ai loro morti di rivoltarsi a piacimento.
La risalita dei rospi li ha condotti fino all'undicesimo piano dell'esofago in cui lavora Terzo. Le giornate di merda continueranno, finiranno per poi ritornare e così via; ma nel frattempo godiamoci questa storia.
Dall’undicesimo piano, questa la prospettiva del mio lavoro, si vedono diverse le cose. Un temporale, ad esempio, svela il lato giocoso che nasconde tra le nuvole grigie. Queste ultime che da sotto sembrano schiacciare la gente, viste da lì sono meno dense, più filacciose, più alla portata dei sogni umani. Altro esempio può essere uno stormo di rondini che lasciano posto all’inverno. Si muovono in numero esagerato e quando le guardi dal piano stradale resti un attimo incantato dalle forme che riescono a compiere. Dall’undicesimo piano invece riesci a cogliere la paura che gli batte in petto, la fretta di lasciare quel posto e la comodità di volare in numeri così grossi in modo da limitare le perdite. Dall’undicesimo piano, tale è la prospettiva del mio lavoro, mentre mi lascio andare alla meraviglia degli occhi, ripenso al percorso fatto per arrivare fin qui in metropolitana. Ci vogliono quindici fermate più o meno, cinque le faccio con la mia ragazza le altre dieci con la mia testa; e oggi, guardando il riflesso dei finestrini, mi sono accorto che tutte queste donne e questi uomini per doversi reggere ai corrimano devono fare il saluto col pugno, quello comunista! E mi è venuto da ridere e non sapevo trattenermi e volevo raccontarlo a qualcuno, ma quando sono salito in ufficio ho visto facce di cera, ancora assonnate ma già pronte a lamentarsi. Allora ho guardato fuori e sono andato via da quel posto, da quelle stanze e da quel palazzo, ho superato il palazzo dell’Eni, la metro e non so quanti monumenti e piazze e sono arrivato al confine d’acqua. Poi lo squillo del telefono mi ha riportato indietro, la direttrice ha mandato la nuova lista su cui lavorare.
Lavoro per una delle più grosse società di telefonia mobile, noi facciamo il recupero crediti, il che vuol dire che lavoro in un call center e devo chiamare donne e uomini che non hanno un volto ma solo un codice clienti, da cui si tira fuori nome e cognome, dove vivono e soprattutto quanti debiti hanno. È inverosimile ma mi capita di sentire gente che ha problemi finanziari giganteschi come ad esempio la perdita del lavoro o un divorzio e io dall’alto del mio telefono devo ricordagli un debito sulla bolletta telefonica o sul servizio internet. Quando propongo un pagamento rateizzato queste persone mi ringraziano come se gli avessi regalato qualcosa, come se gli stessi dispensando dell’ossigeno, una boccata d’aria in più, un po’ di tempo per sistemare le cose familiari ed evitare il collasso. Altre, invece, non gioiscono più di niente, la vita li ha completamente rassegnati e di fronte ad una minaccia, o promessa, che il loro caso passerà agli avvocati per il recupero forzato alzano le spalle (immagino facciano così) e dicono sommessamente “che vada tutto alla malora. Anche io.” Ed è in questo momento che non sopporto più, allora mi alzo, guadagno un po’ di metri dalla scrivania, prendo le scale e scendo giù, fuori, dove mi aspetta un bel giardino fatto di pini e olmi, alberi di giuda, cespugli, prato e panchine. Mi metto a sedere, tiro fuori il tabacco e mi arrotolo una sigaretta e nel fumo delle prime boccate passa Michele. Non so se è il suo vero nome questo, è il giardiniere che cura in silenzio gli alberi e pettina il prato col suo rastrello. Gli ho dato questo nome perché mi piace pensare che sia come San Michele Arcangelo protettore della polizia di stato, dei paracadutisti, degli spadaccini, maestri d'arme e armaioli, degli arrotini, dei commercianti, dei giudici, dei merciai e dei lavoratori tutti. Michele dall’ebraico Mi-Kha'El, composto dalle parole mi (chi), kha (come) e El, abbreviazione di Elohìm cioè Dio. Il significato letterale è quindi Chi (è) come Dio, chi come Dio lavora in silenzio e si prende cura delle sue creature. Mentre lo guardo penso alle nostre differenze, alle armi che usiamo per svolgere il nostro lavoro: lui con forbici, rastrello e scala telescopica effettua movimenti lenti, avendo cura di non fare male agli alberi mentre li defoglia o modifica qualche ramo o mentre raccoglie dal prato le foglie secche. Io che con telefono e computer mi affanno a comporre numeri telefonici e a parlare alle persone per concordare un possibile piano di rientro, ad arrabbiarmi se penso che nonostante la mancanza di lavoro o i disagi economici il bisogno di avere internet a casa è più grande. È come se i bisogni primari di questa mia società si siano modificati e tendano al superfluo. Non importa se hai un lavoro in nero, ti ci vuole una bella macchina per arrivare al locale dove fare l’aperitivo. Non importa se su quella macchina puoi solo mettere dieci euro di benzina, altrimenti non hai soldi neanche per una birra, perché sai che con una bella macchina hai più probabilità di rimorchiare.
il posto in cui lavoro io è al primo piano, non ho neanche una finestra. il posto in cui lavoro io è vicino casa, non ho nessun finestrino dal quale sognare. il posto in cui lavoro io è vuoto, non ho colleghi con volti di cera. Il posto in cu lavoro io è pieno di numeri, io odio i numeri,. Il posto in cui lavoro io non ha bisogno di filosofie, il posto in cui lavoro io non crede nelle ideologie. Il posto in cui lavoro io non si pone la questione dell’esistenza di dio .Il posto in cui lavoro io grida “spegniiiiii!!!” ogni volta che vinicio sussurra. Il posto in cui lavoro io è un bel posto, il posto in cui lavoro io ha tavoli di legno, pesanti! Il posto in cui lavoro io è ricco di progettiperilpresenteeperilfuturo. Il posto in cui lavoro io mi ha snaturata in pochi mesi, il posto in cui lavoro io è tutto ciò che non avrei mai desiderato. Il posto in cui lavoro io mi permette di pagare una macchina, un affitto e qualche birra al sabato sera., il posto in cui lavoro io non si lamenta mai, il posto in cui lavoro io non ha neanche bisogno di me.
RispondiEliminaQuesto scritto non è politico: La città muta, insegue forme e piazze per contenere turisti in collegamento online.
RispondiEliminaI miei amici si son persi, siamo conoscenti di e per tutti.
A volte non ci si ricorda l'immagine che ci rappresenta, dove? su faccialibro.
Abbiamo perso il contatto con la realtà.
Questo scritto è anche politico: Mutate le città senza esserci resi conto di quanto è cambiato, procediamo in piazze vuote e mute.
Ci interessano futilità...
Le piazze amano volgarità.
Lasciate le strade al loro lento degrado naturale, abbiamo perso il nostro diritto a vivere tra le mura e i giocosi vicoli delle città.
Abbiamo perso il cont(r)atto con la realtà.
Certo di non pretendere che i posti di lavoro non si pongano la questione di Dio e lasciando questa prerogativa alla razza umana, mi spiace. Questo scritto non voleva offendere nessun lavoratore e non si voleva porre sopra nessun mestiere. Il fatto dell'undicesimo piano è un dato di fatto, dato che il ragazzo che mi ha raccontato la storia lavora davvero lì. Anche a lui il call center lo ha snaturato e certo non è quello che sperava di fare, ma ne ha parlato e secondo me chi racconta butta fuori. Come dice il CammaRè "i rospi non si riesce mai a tenerli giù, risalgono a galla" e quando lo fanno è come (scusatemi il paragone) ruttare; è liberatorio, quindi ben vengano i rutti sul lavoro! Anche io faccio un lavoro che mi aliena e mentre scrivevo la storia di questo amico non ho potuto fare a meno di metterci del mio.
RispondiEliminaC'è una questione fondamentale secondo me che deve essere affrontata ed è quella del lavoro. Senza salotti televisivi con politici televisivi.
Grazie e scusatemi.
P.S. è la prima volta forse che lascio un commento.
Ops...ho fatto un errore: certo di non pretendere che i posti di lavoro si pongano la questione di Dio [...]
RispondiEliminaValendo sempre la massima regolativa di vita pratica che vuole un complimento sempre gradito a chi lo riceve e pressochè gratuito per chi lo elargisce, laddove una critica mai è lieve a chi la incassa se centra il punto chi la compie, vado a far notare che pecca di forma, di sintassi e di linguaggio retto, in alcuni punti, il racconto, non essendo gabellabile carenza sub specie experimentum. Conoscere il linguaggio è presupposto inderogabile per chi ha la pretesa di forzarne le regole essendo, del resto, impossibile eseguire variazioni su un tema che poco o nulla si conosce. All'uopo alcuni esempi: che giova azzardare la qualificazione d'un banco di nuvole per mezzo di un aggettivo come "filaccioso" se non si cerca, nel prosieguo del narrare, di mantenere il tono su quell'alterazione in diesis senza scadere nella marcetta? Ché non basta riprendersi poi sul finale con l'audace "defogliare" - meglio rimpiazzato da un più sobrio e coraggiosamente scontato "potare" - suonando più come una ridondanza dell'errore che come un richiamo al tema. Singolare, poi, ancora, è la qualifica di "direttrice" attribuita alla responsabile, a meno che non ci si trovi a lavorare in un Pio Istituto d'Orsoline - nel qual caso sarebbe più appropriato un ossequioso "Reverenda Madre". Quanto al fatto che "donne e uomini [..] non hanno un volto ma solo un codice clienti", lo si classifica qui benevolmente come refuso, non volendo pensare che il plurale dei soggetti abbia moltiplicato anche i titolari del codice. Quanto alla facolta degli stormi di STORNI - ché non di rondini si tratta - di "compiere" forme anziché "tratteggiarle", "disegnarle", "tracciarle", et similia, si comprende l'inganno in cui si può esser tratti dal modo acrobatico con cui tale azione è compiuta, appunto. Apprezzabile l'excursus etimologico, e se fosse stato il racconto tutto portato su quel tono ne avrebbe certo guadagnato, mentre invece sembra, quel tocco erudito, posto lì come un picco di monte tra cento colline.
RispondiEliminaTralascio altri rilievi per rgioni di spazio, concludendo con una considerazione riguardo al contenuto: un intreccio di pseudo-esistenzialismo pessimista tinto di scontato impegno "ecosociale", atroce peana che satura le coscienze d'oggidì.
Ciao Zu' Frà.
io non mi offendo mai, sarà un problema di personalità? mamma mia, se penso allo psicologo me la faccio sotto!
RispondiEliminase un posto di lavoro si ponesse REALMENTE il problema dell'esistenza di dio sarebbe una figata, in realtà ormai da almeno un millenio, ma formalmente da mezzo secolo, l'idea di dio è stata scaraventata in mare...
semplicemente è accaduto che, in un momento difficile di una giornata impossibile, le tue parole, mio caro Terzo, hanno risvegliato emozioni che cautamente avevo sedato. ed ecco tutto... ho scritto senza pensare, a torto o a ragione, ho semplicemente liberato il cuore senza usare le lacrime...
e poi, al giorno d'oggi, nel nostro bel paese sono ben altre le cose che offendono i lavoratori...