Sono cieco di fronte alla combustione delle mie cifre
La tecnologia ci azzera
Fatemi fuggire
Fatemi evitare i colori del cibo
Aiutatemi a comprendere il fascino dell'azzardo
Sopportate la mia miseria come io sopporto quella altrui
Di certo a tutti voi sarà capitato di avere quella sensazione di cadere nel vuoto quando si è sul punto di addormentarsi e di sobbalzare con un sussulto. Ecco l'altra sera mi capitò di non sentire quel brivido e caddi nel vuoto.
Non ricordo per quanto tempo ma è stato molto lungo il mio viaggio. Attraversai diversi tipi di realtà e e ne sono consapevole soltanto adesso che sono sveglio.
Fu un atterraggio piacevole e rassicurante. Presi coscienza e mi ritrovai naufrago, nuotavo tranquillo nel mio mare, quello della mia amata terra; mi sentivo bene e pieno di forze e il contatto dell'acqua al mio petto era come un abbraccio materno, tanto che fu spontaneo fermare le mie braccia e lasciarmi cadere un'altra volta, in posizione fetale come se stessi nel grembo del mare.
Caddì e mi lasciai cullare dalla corrente. Al mio risveglio ero in un campo arido, simile a quelli che ci sono nella mia odiata terra. Come per istinto, cominciai a seminare in quella terra avara, speranzoso che lì potessero germogliare dei nuovi sentimenti, nuove illusioni.
Non ricordo nient'altro di questa avventura dentro la mia anima.
Nei giorni a seguire, da persona desta, finsi che dentro me il vento spingesse con se il calore del sole e riscaldasse la mia semina mentre la pioggia delle mie nostalgie l'annaffiasse.
Ma un sole polare non scalda e una pioggia acida corrode. E' per questo che da quella semina, nascono ogni giorno meccaniche monotonie, noie perennemente viscide, allegrie effimere, gioie astratte, e si allattano sbalzi d'umore.
E' una luna beffarda e ostile. Ma ci saranno giorni migliori.
Giriamo l’angolo della farmacia ed eccoci davanti al portone di casa, bel portone in legno decorato con intarsi arabeschi, Aldo si gira e mi dice: “il mio loft è al terzo piano”. Beh, più che loft io lo chiamerei monolocale, o meglio ancora garage, magazzino forse; è una stanza enorme senza pareti quella che m’annuncia come casa sua. M’invita ad entrare e posare la giacca sopra la poltrona indicandomi un mucchio alto circa due metri di giacche e cappotti. Dando un’occhiata alla casa mi accorgo che è davvero un magazzino pieno di cianfrusaglie varie, c’è addirittura un vecchio sidecar della seconda guerra mondiale “bello eh? Quello l’ho preso quasi trent’anni fa da un gruppo di zingari che passavano di qui e pensa … quando l’ho preso camminava ancora! Adesso lo uso come sopramobile.”
Non m’interesso più di quel cimelio e vado verso il tavolo vicino ai fornelli della cucina dove Aldo sta facendo il caffè. Da una credenza piglia un barattolo di ceramica di quelli con la chiusura di metallo, da un altro sportello poi, tira fuori la caffettiera e con mio grande stupore m’accorgo che è il modello napoletano, sapete quella che si gira una volta che l’acqua bolle. Tiro fuori il tabacco e inizio a farmi una sigaretta e per rompere il ghiaccio inizio a parlargli di me, di cosa faccio per vivere, quello che studio, i miei interessi. Lui ascolta mentre prepara il caffè e appena finisce si gira, si siede e mi dice che non si può fumare.
Poso la sigaretta facendo un sorriso e chiedo in silenzio se può fare uno strappo alla regola; Aldo sembra capirmi e con la testa mi ripete il no: “ho smesso di fumare quindici anni fa, secondo te ti faccio fumare qui? Si quindici, ma non è dura come pensa la maggior parte della gente. Un giorno ti annoi e smetti di fumare, c’è chi non si annoia e continua.” Inizia a raccontare di quando negli anni settanta era in facoltà, era giovane e i fermenti di quegli anni non si scordano più “eravamo belli, giovani e sentivamo che potevamo cambiare davvero qualcosa. Col senno di poi ti posso dire che abbiamo avuto paura nel momento migliore, ma poi la gente ha chiuso gli occhi, altri sono stati convinti o sono stati presi in giro dal sindacato e alcuni si sono impiegati nei servizi segreti. I molti sono diventatati dirigenti, in molti sono morti, che poi è la stessa cosa, io e la mia donna siamo andati in America Latina a farci una vacanza.” Mi dice delle difficoltà di quel viaggio: non potendosi permettere un biglietto aereo sono partiti in nave, lui ha anche lavorato da cameriere a bordo per pagare una parte di biglietto. Arrivati dall’altra parte del mondo hanno iniziato a lavorare di pollice “come dici tu quando fai l’autostop? Siamo arrivati fino a Capo Horn con i passaggi. Senza soldi ci siamo divertiti, abbiamo conosciuto molta bella gente, di quella paesana, quella ai margini delle grandi strade. Villaggi stupendi e cibo buono, molta pioggia e cieli immensi, cieli enormi che t’inghiottono, di quelli nuvolosi densi, a pecorelle, nuvole sfilacciate come cotone sulla testa da farti venire il torcicollo. E distese di niente, fin dove arriva l’occhio c’è il nulla, per due giorni siamo rimasti soli su una strada non passava una macchina, non un camion che ci accompagnasse un poco più in là. Quando siamo rientrati in Italia la situazione era completamente cambiata. Erano gli anni ottanta, ci siamo accorti di aver viaggiato per quasi dieci anni e non riconoscevamo niente della nostra città, era tutto diverso; sembravamo stranieri in casa. Gli amici erano cambiati, adesso avevano una famiglia e al posto dei jeans avevano pantaloni e giacche. Non tanto per i vestiti che non hanno un valore in sè, ma per quanto riguarda il loro modo di pensare. Li ricordavo ribelli e non borghesi, adesso invece erano ingabbiati nei loro concetti e preconcetti, si erano scordati tutto lasciando il posto a cose come il capo ufficio, la macchina più larga visto che è in arrivo un bimbo, la domenica allo stadio dove si può essere se stessi.”
Quest’uomo di quasi sessant’anni mi racconta del passato, più di vent’anni fa, e io rivedo l’attualità. E mentre glielo dico Aldo fa un amaro sorriso “una volta qui, dopo l’America, mi sono dovuto adattare anch’io. Non sapevo come però, ci sono stati momenti difficili e non volevo finire dentro un ufficio, avevo ancora l’odore di quei cieli nel naso e di finire dentro quattro mura asettiche non era la mia aspirazione. La mia compagna, lei come tutte le donne, ha fatto meno fatica a riadattarsi e alla fine dopo una serie di liti e pianti ci siamo separati. Ora so che è felice e ha avuto tre figli con suo marito. Pensa … quando stavamo insieme odiava il matrimonio! Non cambiare mai idea non sempre è coerenza, cambiarla spesso non sempre è segno di adattabilità. Ci vuole una misura; e un giorno ho conosciuto un croato che faceva il rigattiere.”